Nevada Smith

Continuo la stampa delle schede da me scritte per le edizioni del Dizionario del western americano 1899 – 2022, edito da Gremese. Ecco la mia scheda relativa a “Nevada Smith” di Henry Hathaway.

Nevada Smith (copyright 1965, uscito nel 1966) di Henry Hathaway è propriamente un western
anomalo. Appare infatti come un film d’avventura che slitta in generi diversi, per esempio come
quello carcerario, quando Max-Nevada-Steve McQueen è alla ricerca del personaggio interpretato
dal mitico Arthur Kennedy.
Nevada Smith è la messa in scena della storia di un giovane mezzosangue che ricerca per anni la
vendetta sui tre killers che gli hanno brutalmente ammazzato i genitori tanto amati. È la sua
trasformazione totale, la sua ossessione esistenziale per riuscire prima a trovare e poi uccidere i
tre, qualunque possa essere il pegno vitale da scontare. L’amore ricevuto da donne sublimi.
Lasciate. Momenti casti e puri, pieni di sentimento d’amore si annodano anche nei rapporti tra
Max e questi personaggi femminili. Ma Max-Nevada è ossessionato dalla vendetta da compiere e
non può darsi durevolmente. Sono rapporti egoistici che gli servono per ricominciare la caccia
spietata. Perché Max-Nevada non ha più cuore, ma solo un cervello matematico che lo trascina
fino allo scontro finale con l’orrido e schifoso personaggio incarnato da Karl Malden, grande
interprete negativo.
Western atipico anche per gli anni in cui è realizzato, quelli che saranno dell’impero degli
“spaghetti western”, dove il West non c’entra per nulla, ma è la commedia all’italiana che spicca e
inverte la tendenza.
Ma Henry Hathaway attraversa il percorso classico e proprio negli anni Sessanta firma alcuni tra i
suoi western più belli e inventivi. Nevada Smith per me rimane un culmine inespugnabile per
lirismo, azioni violente, necessità di sopravvivenza, dove il tema della vendetta raggiunge punti
profondi ed espressivi, manipolando la materia in modo semplice lineare anche se con puntate
nella violenza tremenda. Max-Nevada-Steve solo all’ultimo, trovato finalmente il malvagio
interpretato da Karl Malden, in riva all’acqua di un torrente, non ne può più di uccidere e vedere
morti intorno a sé, e mentre questi lo implora di ammazzarlo, Max-Nevada lo lascia lì come un
oggetto senza più significato. Forse alla ricerca di un’esistenza che non ha mai vissuto.
Splendida elegia bucolica come spicca dalla parte relativa all’incontro tra il giovane Max che cerca
di diventare un abile pistolero e un uomo d’azione, il più anziano Jonas Cord-Brian Keith, che
diventa suo amico, protettore e maestro, così come più tardi la figura positiva del frate
interpretato da Raf Vallone.
Del resto questo profondo rapporto tra il maestro, quasi un nuovo padre per lui, Jonas Cord-Brian
Keith e il giovane Max Sand (Steve McQueen si chiama così prima di chiamarsi Nevada Smith)
diviene una lezione di vita e di amicizia in cui Brian Keith gli insegna le regole per sopravvivere nel
West: “Conoscere gli uomini… significa… non fidarti di nessuno”. E alla fine avviene così il saluto
tra i due con una finta e gestuale sparatoria, solo accennata per gioco.
La scuola impartitagli da Jonas Cord è una delle parti più belle, liriche e profondamente georgiane
del film. In anni in cui difficile era risolvere questi enigmi esistenziali per il western classico che
oramai stava prendendo la strada del non ritorno.

Così quando l’epoca dell’epopea del West sembra giungere al tramonto, ecco emergere la nuova
concezione del western secondo Henry Hathaway. Sono gli anni Sessanta che dimostrano la
grandezza di autore classico di Hathaway. Quegli anni Sessanta che attestano la fine del percorso
western per i grandi vecchi come John Ford, che firma il suo ultimo capolavoro western-summa
con Cheyenne Autumn (Il grande sentiero), del 1964, come Raoul Walsh che con A Distant Trumpet
(Far West del 1963 conclude la sua esaltante e mitica carriera).
I western di Hathaway degli anni Sessanta segnano l’epoca quasi in trasparenza; altri film per la
critica avevano più importanza. Ma ora, a distanza di tempo, la concezione del mondo e gli spazi
del West mostrati da Hathaway appaiono così autenticamente personali e poco adattabili ad altri
da dimostrare quanto grandi fossero le verità e le qualità di regia che riflettevano dai suoi film.
Hathaway riesce a dimostrare in tutti questi western, tra loro così differenti la grande solitudine
degli uomini negli ampi come nei piccoli spazi. Penso allo straordinario finale nel cimitero di
famiglia di Mattie Ross in True Great (Il grinta del 1969); oppure all’impossibilità di ricambiare il
saluto, quando lo incontra per caso, a Jonas Cord-Brian Keith, suo maestro e quasi padre, da parte
di Max Sand-Nevada-Steve McQueen in Nevada Smith del 1966; oppure ai due finali infuocati (è
sempre un’armeria nel paese dove ha fine il percorso dell’azione filmica) di From Hell To Texas
(L’uomo che non voleva uccidere del 1958) e The Sons Of Katie Elder (I quattro figli di Katie Elder
del 1965).
Hathaway muove i suoi attori nel paesaggio western con la facilità con cui li muove nei film
d’avventura africani o indiani, e li immette in spazi scenografici aperti dove sono gli elementi
naturali, come l’acqua, il fuoco, il deserto, la montagna che condizionano la prova dell’uomo con
se stesso. Da solo questi risolve di cambiare o molto più spesso di andare avanti per il percorso già
scelto o da cercare. È questo il caso ossessivo e angosciante del personaggio di Max-Nevada. Non
s’arresta di fronte a nulla.
Il primo incontro durante la premessa del film è già un sigillo preciso. Tre cavalieri si fermano a
parlare con un giovane (Max) vestito non da cowboy intento a prendere acqua, chiedendogli dove
sia una miniera. Proprio quella del padre. “Come ti chiami?”, gli chiedono. “Max” risponde
gentilmente Steve McQueen. I tre si allontanano sparando ai cavalli mentre Max resta solo col
fucile e non può fare niente. Musicale dissolvenza incrociata sulla casa della miniera. Ampi spazi
esterni. Un urlo femminile. Violenza brutale. In montaggio alternato Max cerca di raggiungere il
proprio cavallo. I tre vigliacchi cominciano con un coltello a incidere la pelle denudata di
un’indiana (la madre di Max). “Non ho paura” dice lei.
Ecco Max a cavallo. Ancora una puntuale dissolvenza incrociata… e il tempo passa. Max arriva a
casa. Un uomo (un loro amico) tenta di fermare Max dicendogli che sono morti. Ma il giovane va
deciso verso la casa. Bellissima inquadratura dall’interno scuro allo stipite in cui si staglia la figura
tragica di Steve McQueen. Poi sempre da fuori (esterno) lo spettatore assiste al dramma di Max
che indietreggia e rimane solo. Le mani rosse di sangue.
Ed è qui che si innesta il percorso che lo porterà come in una sua odissea infinita a ritrovare gli
assassini.
Negli anni Sessanta Nevada Smith rimane esemplare come film epico, con tutta la sua forza
brutale, espressiva e dominante.

Francesco Ballo

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