Ombre Rosse

Premessa
Sono stato chiamato dal curatore del Dizionario del Western Americano…Roberto Guarino per scrivere le
schede di alcuni film. Senza alcun compenso e con la possibilità di rileggere le eventuali correzioni.
Questo avveniva prima della pandemia COVID. Quindi più di tre anni fa. Non si è mai parlato di una
redazione che potesse intervenire così come è successo senza darti da rileggere le voci. Questo abuso
di potere diviene un comportamento inammissibile e violento, perchè cambia e taglia il testo a proprio
piacimento, ma lascia la mia firma. E no signori miei. Così non va. Il colmo della censura e del non
rispettato è la totale mancanza nel Dizionario…della mia scheda su Ombre Rosse di John Ford,
affidatami da Guarino. Non c’è più ed è stata sostituita da una voce redazionale che non approfondisce il linguaggio fordiano e che rimane solo alla superficie.

Stagecoach (Ombre Rosse, W. Wanger-United Artists, 1939, b/n, 97’)

Re. John Ford; sc. Dudley Nichols (da Stage to Lordsburg di Ernest Haycox); fo. Bert Glennon; mo.;
Otho Lovering, Dorothy Spencer (in alcune filmografie viene citato il nome che sui titoli di testa
non c’è di Walter Reynolds); mu. Richard Hageman, Franke Harling, Louis Gruenberg, John Leipold,
Leo Shuken (musica adattata da motivi popolari americani); int. Claire Trevor, John Wayne, Andy
Devine, John Carradine, Thomas Mitchell, Louise Platt, George Bancroft, Donald Meek, Berton
Churchill, Tim Holt
Stagecoach (Ombre Rosse) è un film di percorso. Un viaggio in diligenza dalla cittadina di Tonto
fino a quella di Lordsburg, dove nove personaggi, così diversi tra loro, si trovano a dover subire
ogni sorta di sopruso. E i personaggi suggellano epicamente la battaglia esistenziale quotidiana.
Ford li dipinge così, magistralmente.
Paura, angoscia e tensione traspaiono sui loro volti per le azioni affrontate fino al drammatico
finale: l’assalto alla diligenza da parte degli Apaches di Geronimo nella piana desertica del Lucerne
Dry Lake, prima dell’arrivo a Lordsburg dove Ringo affronterà in una sparatoria notturna i fratelli
Plummer (prima di unirsi a Dallas-Claire Trevor).
Ombre Rosse è forse il film western più famoso della storia del cinema. Quando qualcuno vuole
citare un titolo western cita Ombre Rosse. “Mi chiamo John Ford faccio western”. Ed ecco che nel
1939 (e Ford realizzava western dal 1917, anno di Straight Shooting con Harry Carey), realizza
Ombre Rosse. Sono passati più di vent’anni dal suo primo western e nella tecnologia
cinematografica all’apparenza sono passati secoli, ma in realtà lo stile di Ford rimane quello,
penetrante, profondo, sempre alla ricerca di una verità solitaria e mai univoca come se fosse alla
ricerca di un sempre nuovo percorso.
Opere come Ombre Rosse, Sfida Infernale, L’uomo che uccise Liberty Valance, emergono dentro il
mito e l’epos.
John Ford è il cinema che diviene classico ed epico. Cinema che dagli albori, Straight Shooting, si
spinge fino agli anni Sessanta, a Liberty Valance, al Grande Sentiero e al più western di tutti, quello
oltre l’oceano Pacifico: Seven Women (Missione in Manciuria).
E vedere John Wayne come lo ammiri in Ombre Rosse, e poi lo vedi invecchiare nei paesaggi di 3
Godfathers (In nome di Dio), della Trilogia della guerra, di The Searchers (Sentieri Selvaggi) e anche
di L’uomo che uccise Liberty Valance, è come scorgere una mesa della Monument Valley. Così
l’attore diviene parte del contesto spaziale in cui si muove. È l’epos fordiano che ha in John Wayne
la sua più profonda espressione: Ringo, Nathan, Ethan, Tom Doniphon, tutti nomi che
propongono, come un’eco lontana, ma presente, la leggenda.
“No, Senatore. Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”.
Una piana desertica, appuntita qua e là di montagne di roccia corrosa – le famose mesas della
Monument Valley. Cattedrali solitarie come barriere emergenti in ampi spazi, quasi intoccabili per
l’uomo. Corre veloce un cavallo con il suo cavaliere. Una diligenza. L’azione dell’uomo fordiano si
inserisce in un’atmosfera di pura sospensione. È un uomo calato nella seconda metà
dell’Ottocento. Natura separata e incontaminata, che Ford ama alla follia. Il suo cinema western si
svolge là, anche quando a volte è più “cittadino”.

Ford scandisce ogni azione come per costruire una sinfonia. E ricorre a tempi che misurano
l’avventura dei singoli individui negli avamposti di una frontiera che sembra sempre spostarsi. Con
le sue immagini, produce e inventa ballate con attraversamenti e percorsi infiniti.
Prima del viaggio vero e proprio, nella cittadina di Tonto assistiamo alla struggente cacciata della
giovane prostituta Dallas (Claire Trevor) e del dottore ubriaco Doc Boone (Thomas Mitchell), che si
dimostreranno le personalità più generose, più profonde, più umane e oserei dire più fordiane.
Alcuni dei personaggi che poi saliranno sulla diligenza vengono presentati apparentemente con
visioni sfuggevoli: è il caso del giocatore Hatfield (John Carradine), di Lucy Mallory (Louise Platt) e
del venditore di alcolici (Donald Meek). Così il conducente della diligenza diviene perno attorno al
quale ogni personaggio si rivolge. A lui si affianca il marshall interpretato magistralmente da
George Bancroft, alla ricerca del giovane Ringo (John Wayne).
Il viaggio è come una sinfonia musicale che parte su tonalità d’adagio (nonostante le violenze
esistenziali in cui vengono coinvolti il Doctor Boone e la giovane donna Dallas, scacciati
vigliaccamente da Tonto) e mediante due pause che arrestano questo percorso date dalle fermate
della diligenza, durante le quali avviene la magnifica nascita del neonato di Lucy Mallory e
l’innamoramento tra Ringo e Dallas, la sinfonia si inarca sempre più in un ritmo frenetico e
vorticoso sul fortissimo verso la fuga finale (mortale per Hatfield) causata dall’attacco degli
Apaches.
Dopo la partenza da Tonto, ai sette personaggi si aggiunge l’antipatico Gatewood, uomo
autoritario e incapace di dialogo, che solo a Lordsburg scopriremo essere un ladro imbroglione e,
solo successivamente, il giovane ricercato Ringo.
A Lordsburg però nella notte cittadina ecco che Ringo affronta da solo i fratelli Plummer tra le
strade apparentemente deserte. Qui avverrà la sparatoria, celata allo spettatore, poiché avviene
fuoricampo, mentre la macchina da presa inquadra lo stato d’animo di Dallas in trepidazione per
Ringo. Tutti pensano di aver visto la sparatoria ma in realtà no, si vedrà solo il bandito Luke
tornare al Saloon sulle proprie gambe e poi cadere stramazzato al suolo. Ed è stupendo e
sorprendente quel finale profondamente fordiano che unisce il giovane Ringo al passato di Dallas,
che teme, dopo essere stata scoperta, di venire lasciata e invece no, perché il “nuovo americano”
se ne andrà con lei…
L’unico personaggio negativo è quello che pretende l’ordine e l’autorità, cioè Gatewood che se ne
va da Tonto con una borsa piena di soldi, ma viene scoperto alla fine. Ford non sopporta le
personalità che vivono sul falso e che sono apertamente doppie, perché da Ombre Rosse esce
straordinaria la figura apparentemente misteriosa interpretata da John Carradine, il giocatore
d’azzardo, sudista, e che alla fine dice sommessamente, prima di morire, di essere figlio del giudice
Greenfield. L’epos fordiano si respira in ogni azione del film.
È importante distinguere i tempi e i luoghi in cui Ford realizza il viaggio. L’interno della diligenza è
girato in studio con l’uso del trasparente, che però non dà alcun fastidio, perché comunque nel
montaggio si alterna splendidamente, con ritmo musicale, con gli esterni naturali in cui è calato il
percorso della diligenza, quegli infiniti spazi che vanno dal Beale’s Cut al Lucerne Dry Lake sino al
suo paesaggio preferito: la Monument Valley (come ha acutamente sottolineato lo studioso
western Carlo Gaberscek: la fuga-rincorsa sembra tutta girata nella Monument Valley quando invece la
drammatica corsa con l’inseguimento degli indiani avviene sul Lucerne Dry Lake).


La ristrettezza dell’interno della diligenza fa sì che tutti e sei i viaggiatori, più Ringo, quando
sopraggiunge, siano per forza a diretto contatto tra loro e da qui si formino rapporti tesi o molto
sentiti, quali gli sguardi tra Dallas e Ringo e le protettive proposte di Hatfield (uomo del Sud) per
Lucy Mallory, sposata a un capitano nordista.
Guardando Ombre Rosse con attenzione, ci accorgiamo che John Ford e il direttore della fotografia
Bert Glennon reinventano l’uso delle due o più azioni nello stesso campo visivo e quindi un uso
sistematico della profondità di campo, come realizzeranno anche Orson Welles e Gregg Toland.

Basta osservare la composizione spaziale degli elementi ripresi nel campo visivo in
un’inquadratura dall’interno sull’esterno in uno dei primi momenti del film, durante la
presentazione dei personaggi che dovranno percorrere il lungo viaggio in diligenza da Tonto sino a
Lordsburg. Un’inquadratura esemplare è quella in cui la macchina da presa è posta all’interno
della sala in cui si trova Lucy Mallory-Louise Platt; ed è interessante osservare come nella parte
superiore del campo visivo compaia la finestra che dà sull’esterno. Ogni elemento è a fuoco.
Importanza basilare della luminotecnica. Utilizzazione di una focale perciò simile a quella dei
registi del cinema classico muto. La giovane donna guarda verso la profondità nella direzione
dell’uomo che si allontana, vestito di nero e con un cappello bianco, che è inscritto nel rettangolo
verticale della finestrella posta sotto la “E” di “Hotel”. Una composizione di più spazi all’interno di
quello dato dal campo visivo che noi vediamo. Il gioco delle linee e degli sguardi diviene epicentro
di piani spaziali diversi dentro l’azione del film. L’uomo si allontana e agisce per proprio conto
anche se è l’oggetto del guardare della giovane donna. Si avverte allora un’importante e profonda
concezione del cinema fordiano fondato sulla profondità di campo. L’uomo che si sta
allontanando, dopo aver precedentemente salutato educatamente Lucy Mallory, è il personaggio
Hatfield interpretato dal mitico John Carradine.
Vi sono molti altre inquadrature così esemplari a partire dalla regia dell’interno Saloon, a Tonto,
dove il dottor Boone (Thomas Mitchell) incontra il signor Peacock (Donald Meek). Sia il pavimento
sia il soffitto sono ripresi nella stessa inquadratura, l’illuminazione dell’interno è nuova rispetto ai
western degli anni Trenta. Contrasti di chiaroscuro. Illuminazione con effetto finestra ed effetto
porta che sono le due fonti di luce. Distanza tra Doc Boone e Mister Peacock, tenuti entrambi a
fuoco. Si avverte anche come per molti altri film di John Ford l’importanza fondamentale della
misura aurea e dei rapporti tra le figure in campo.
Guardando i film di John Ford non si può fare a meno di constatare la purezza del campo ripreso:
quella autentica firma che è la sua composizione dello spazio e la durata in cui questo spazio
rimane ripreso. Un che di musicale che mostra la profondità e l’unicità della sua messa in scena. E
così vanno ricordati gli spazi di Lordsburg, Tombstone e Shinbone; le cittadine del West fordiane
che si stagliano precise nei giorni e nelle notti fordiani, con i suoi protagonisti che agiscono dentro
questi spazi ancestrali ed epici.

Francesco Ballo

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